“Eros e Priapo” di Carlo Emilio Gadda: analisi della società e dell’io
Il mio discorso non è che un minimo contributo a quel conoscere…
(C. E. Gadda, Eros e Priapo)
Carlo Emilio Gadda è considerato uno dei più grandi scrittori italiani. Sebbene sia stato messo al pari di autori quali Joyce e Musil, le sue opere sono poco conosciute: Gadda è un autore difficile, immensamente difficile, ma riuscire a conoscerlo, capirlo e apprezzarlo può essere una delle grandi esperienze letterarie della vita.
Gadda, tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, si cimentò ‒ da lettore curioso e insaziabile qual era ‒ nello studio di Freud e della psicoanalisi, studio che lo porterà a scrivere La cognizione del dolore, suo capolavoro, ed Eros e Priapo, complesso pamphlet di sconcertante attualità. Tuttavia, sarebbe sbagliato pensare che Gadda utilizzasse il pensiero freudiano unicamente per fini letterari; oltre ad essere uno scrittore attento alla realtà del suo tempo, Gadda fu anche inquieto investigatore della propria persona e della propria anima: il suo obiettivo fu attingere alla psicoanalisi per aggiungere alla propria etica e alla propria cultura «un soprappiù moderno». Il significato profondo della psicoanalisi venne compreso dallo scrittore in maniera integrale:
La psicanalisi, in verità, può concorrere allo smontaggio di un’idea sintesi che noi ci formiamo di noi stessi, come un’officina di riparazioni può smontare un’automobile. Anche un pupazzo può essere smontato dalla psicanalisi. Questo non significa che la società umana corra pericolo perché il pupazzo è stato psicanalizzato: la società è infelice perché il pupazzo è ripieno di segatura.
Gadda riconosce insomma che, per condurre un’analisi seria e innovativa sulla condizione umana, fossero necessari quegli strumenti che Freud forniva; e in questa presa di coscienza dall’aspetto sincero e coraggioso, c’è tutta la predisposizione dell’autore di Eros e Priapo. In quest’opera difficilmente incasellabile in un genere letterario, Gadda affronta le ombre, i miti, i feticci, gli orrori dell’Italia del suo tempo e, contemporaneamente, della sua anima.
Eros e Priapo è una tagliente critica contro il regime, ma anche contro un determinato tipo di donne, le ‘Marie Luise’. Con quest’ultimo epiteto, Gadda si riferisce a quelle donne patriottiche adoranti il Duce e proprio in esse si trova l’oggetto della sua analisi. A causa dell’ostentato turpiloquio, della schiettezza mai celata e dell’apparente misoginia, la critica letteraria ha condannato a lungo tanto Eros e Priapo quanto il suo autore, riuscendo raramente ad andare oltre la forma e la superfice del testo. Se è pur vero che Gadda accusava ferocemente le «patriottarde» ‘Marie Luise’, colpevoli di bieco interventismo e di approfittare dello stato di guerra per fuggirsene con il primo bersagliere di passaggio, è anche importante capire come questo sia solo il pretesto dell’autore per analizzare le cause recondite di quel disinibito comportamento patriottardo che contribuì a scatenare, e poi a supportare, il fascismo.
Gadda sa fin troppo bene che la sua indagine è complicata e infatti parte dall’assunto che ogni effetto non ha una sola causa, bensì un grumo, una «concatenazione» di cause: l’interventismo e la disinibizione erotica delle donne fasciste sono la conseguenza di una serie di elementi reconditi che devono essere, appunto, «smontati». Per poter sdipanare questo gomitolo, Gadda deve fare un salto indietro nel proprio tempo e tornare nell’ambiente storico-sociale in cui era cresciuto, ossia la Milano borghese di primo Novecento. Gadda entra in quel mondo e ne ritrae il seguente quadro:
Certe Marie Luise noiate stucche per tutta un’adolescenza sui tappeti e tra i mobili santi appiè i Lari di via Brisa, che hanno dovuto dir « sì sì paparino: il papà ha sempre ragione »…. al loro nerobaffuto tiranno da voi celebrato paterfamilias, che hanno dovuto secondarne le bizze, le gelosie, le rancure, la vanità proibitiva e castrativa per tutti quei tragici anni che decorrono dal 13° in poi di loro età, non gli par vero che una bella guerrona piena di carneficine e di bombazze le involi nel calderone della carne, le tiri in crocerossa a medicar la pancia (basso ventre: mito Adonico) a’ feruti.
Come il vetro della bottiglia di gazzosa comprime l’anidride carbonica, così la cultura opprimente della borghesia milanese dell’epoca reprime le proprie figlie ‒ i maschi godevano invece di libertà maggiori ‒ e le costringe a una vita angosciosa di ordini e di divieti; e sono proprio il divieto e la malsana educazione a generare nelle figlie della borghesia milanese una mancanza di spirito critico e una inconsistente ribellione. Da qui Gadda porta la sua attenzione nelle viscere della vita famigliare, risalendo fino a ciò che egli considera uno dei più grandi mali dell’essere umano e della società, ossia il narcisismo:
no’ nu’ li multiplichiamo [i vincoli oppressivi] loro [alle donne] infiniti, alleviandone o liberandone noi, da que’ sudici e baronfottuti che siamo in nel nostro mascolino egoismo e infinita vanità di dindopavoni da ruota tirata.
Possiamo ben vedere come l’accusa non si sviluppi unicamente sul piano misogino: Gadda ci descrive quel narcisismo maschile, egoista e frustrato che si riverserà poi sulle ‘Marie Luise’. In questo passo, l’autore si chiama direttamente in causa usando la prima persona plurale, inserendosi così tra le fila dei «baronfottuti» e dei «dindopavoni da ruota tirata». Il tema del narcisismo, della cupidigia e dell’ossessione per la proprietà privata è centrale nel pensiero di Gadda, il quale riteneva che ‘io’ fosse il più terribile di tutti i pronomi. Sebbene Gadda non abbia mai svolto la funzione di padre opprimente, non avendo mai avuto figli, per lui la fissazione della persona con il concetto di «Io» equivaleva a un profondo annullamento dell’essere umano. Vale la pena leggere ancora le sue parole:
Soltanto i non-vivi, i non-enti, i non-esistenti hanno paura de’ possibili maestri, concorrenti, predecessori, emuli: […] e si ergono tronfi a dire Io: e quando han detto Io si credono aver ottenuto cittadinanza nella città delle anime. […] Ma quel saltellare da un ramo all’altro del vituperio, […] quel credere di sostener sé, la sua casa, la sua parte, la sua “patria” con le parole vituperose rivolte ad altri è un laido farneticare, una laida maniera di non-essere .
Tuttavia, il rapporto tra Gadda e l’annullamento dell’Io è molto più controverso di quel che appare: la più grande contraddizione sta nel fatto che Gadda ‒ il quale si arruolò volontario durante la Prima guerra mondiale ‒ fece dell’obbedienza militare uno degli esempi principali di questa rinuncia all’Io, ignorando quanto l’esercito incarnasse ed esaltasse al massimo ciò che egli stava ostinatamente cercando di combattere. Non solo: Gadda, durante i primi anni della dittatura, guarderà con simpatia al movimento fascista; sarà tuttavia proprio il fascismo stesso, con il suo narcisismo, con la militarizzazione politica e con la guerra, a fargli toccare con mano questa grande contraddizione. Gadda compone quindi il suo pamphlet non solo come un j’accuse, ma anche come uno speculare je m’accuse, una necessità di affrontare i propri «peccati».
L’autore giunge così a confrontarsi con il proprio vissuto interiore, sebbene fosse partito da un oggetto di analisi a lui apparentemente estraneo: la ‘Maria Luisa’. Gianfranco Contini, famoso critico letterario nonché amico di Gadda, notò come lo scrittore fosse intento a mettere sotto osservazione le proprie nevrosi con strumenti analitici «applicati al massimo della caricatura». La confessione ci arriva anche da Gadda stesso, che dichiarava di voler espiare tramite la scrittura alcuni suoi peccati «derivanti dal mio dramma con mia madre e della mia iracondia e nevrastenia». Per quanto possa sembrare assurdo, l’oggetto osservato da Gadda, ossia il prototipo di donna fascista, arriva a fondersi con l’osservatore, con Gadda stesso, il quale trovò nella scrittura il momento cruciale di analisi e di sfogo. Nella raccolta di saggi I viaggi la morte, Gadda scrive:
Poi subentrano al gioco la stanchezza, la pigrizia, la vecchiezza, l’accomodamento delle cluni disseccate sul raggiunto scranno, e comunque il desiderio di non più faticare coi bulbi (ed ogni ricerca è fatica, ogni creazione è dolore!): la pace in famiglia esige invece che si digeriscano i rospi, i bei rosponi di due chili l’uno. E così sia.
Con l’aiuto della psicoanalisi ‒ che rinforzò il suo pensiero e la sua filosofia ‒ Gadda scorse nel semplicismo, nei divieti, nell’oppressione e nel narcisismo i grandi mali dell’uomo e della società; pertanto non sarà risolutivo dire a un uomo «cattivo» di stare buono, così come non basterà togliere la cocaina al cocainomane e la bottiglia all’ubriaco. Per questo Gadda fu definito dai critici più accorti un «moralista anti-moralista», un eversivo «negatore non di determinati aspetti e fenomeni del mondo in cui viviamo, ma delle stesse impalcature su cui poggia il suo precario equilibrio». In quel gomitolo di concause che è la vita, c’è una «disarmonia prestabilita» che l’uomo può affrontare con ricerca, fatica e ‒ ci ricorderebbe Gadda ‒ con l’ausilio necessario di una buona dose di ironia.