La casa è diventata o è tornata ad essere il luogo del nostro vivere in cui proviamo o il contrastante, e verrebbe da dire ossimoro sentimento di una “noia inquieta” oppure un’attenzione a cose che prima ci sfuggivano nello scorrere accelerato delle nostre giornate, questo dipende da noi. Certo ci troviamo di fronte ad una pandemia, la cui natura sconosciuta così come la cura, ci dà un’ansia e un’apprensione difficili da contenere ma, rimanendo ancorati solo alla preoccupazione per il suo andamento, forse rischiamo di restarne storditi.
….e allora abbiamo pensato di mettere a disposizione questo spazio del sito Psiché per sentirci un po’ più vicini attraverso piccoli contributi personali tanto di vita quotidiana in casa quanto di riflessioni personali con l’auspicio che mantenere viva la positività e la speranza possa aiutare tutti a superare meglio questo momento così complesso.
Chi si sente di aderire a questa proposta, può inviare un’immagine, un breve video, una riflessione, un’idea tratta dalla propria vita quotidiana in casa che contribuiranno a dare forma ad uno stare insieme a distanza.
Magari evitiamo di prendere cose da internet per poter essere noi con le nostre vite ad animare questo spazio e anche per evitare le fake che lì prolificano a nostra insaputa.
Chiaramente, al fine di garantire la riservatezza della partecipazione, sarà importante usare immagini prive di elementi identificativi personali con, se lo si desidera, il solo nome di battesimo inviandole a studio@psicheassociati.it
Questo evento inaspettato è comparso la mattina di Pasqua sul balcone dello studio, sarà un segno di speranza?
In questa immagine ho visto dolcezza, fiducia e speranza.
A causa della “questione coronavirus”, io e il mio psicoterapeuta ci siamo accordati per la seduta via Skype, al solito orario. Nonostante per me andare fisicamente in studio e ol setting stesso siano sempre stati una piacevole routine. Nel prendere questi accordi sono iniziate le mie fantasie, brevi, ma intense: “forse questa cosa può essere rivoluzionaria, magari così come il lettino che poi non abbiamo mai usato, anche il setting classico può essere superato”, e cose di questo genere. Mi sbagliavo. Avevo in mente la rottura di scatole dell’autocertificazione, degli eventuali controlli: “cosa direbbe un agente un po’ troppo zelante di fronte a una psicoterapia?”. Tutte queste cose, e chissà quali altre, hanno contribuito a formare questo pensiero “la seduta su Skype è fattibile”. Tutto questo accadeva prima e durante la telefonata per accordarci; finita la telefonata questo pensiero era già mutato: “ma a me PIACE andare in seduta”, e non solo l’atto della seduta in sé, di quei 45/50 minuti, a me piace andare fisicamente a studio, mi piace addirittura fare a cazzotti coi mezzi. Mi piacciono quei 10 minuti di anticipo che uso per prendere un caffè e i pensieri che mi corrono in mente mentre lo bevo. Mi piace quel turbinio di pensieri che contraddistinguono il giorno della seduta (e talvolta anche la sera prima), dal risveglio a che sento la porta dello studio aprirsi, e il dottore che fa capolino nella sala d’attesa: “buonasera”, “buonasera”. Mi piace alzarmi e percorrere il corridoio, entrare nella stanza e sedermi; la seduta inizia con il dottore che chiude la porta e si siede anche lui: “allora…come va?”.
Questa sequenza mi è presto divenuta familiare, e ogni piccola sua variazione aggiungeva un certo senso di realtà, come i lavori negli appartamenti limitrofi, o il notare un dettaglio nello studio mai notato prima. Oltre alla mia routine, alla costruzione dei pensieri che avveniva mentre andavo a studio, al setting stesso, accogliente e familiare, mi mancava qualcos’altro. La mancanza forse più grande è “il mondo dell’altro”. Quell’infinità di elementi che permettono la conoscenza di un qualcosa fuori da noi stessi, che ci permettono di non stare da soli. Non ero certo solo durante la seduta via Skype, il dottore era lì, potevo vederlo e sentirlo, ma la familiarità della mia stanza non era la familiarità dello studio.
Due anziani camminano sorreggendosi a vicenda, hanno lasciato la casa porto sicuro e si avventurano in strada per provvedere al loro sostentamento. Nessun contatto con i figli nè con i nipoti, il loro scopo di vita è diventato un pericolo. Avanzano nella città deserta come stanchi guerrieri che poco hanno da perdere, lei con delicatezza gli calza la mascherina scivolata sotto il mento, lui lascia fare come un bambino al quale la madre pulisce la bocca sporca di gelato. Osservo quel gesto semplice ma complesso perché pieno di cura per altro, in quel gesto l’essenza dell’amore.
Negli ultimi tempi, prima di questa involontaria reclusione, ero molto frustrata. Pensavo di voler andare assolutamente in pensione quanto prima possibile, salvo rendermi poi conto che i tempi sono ancora lunghi… Credevo si trattasse di stanchezza, che il lavoro non mi piacesse più, di voler cambiare completamente vita. Sto adesso capendo che il lavoro mi piace, eccome, ma che hobisogno dei miei tempi. Un lavoro dipendente, a qualunque livello, ti prende i tempi, consumandoli e consumando te senza scampo. Sono d’accordo con Francesca, il Tempo è ricchezza interiore, è benessere, un bisogno primario.
Sto bene con me stessa, e anche con mia figlia adolescente nonostante gli scontri inevitabili. Sto anche bene nella mia casa. Lavoro on-line, mi riposo, cucino per noi due, faccio un po’ di spesa e non mi sento defraudata. Se – nella tragedia della pandemia, dei malati, dei morti e di chi perde il proprio reddito – possiamo trovare un qualcosa di positivo è proprio questo: fare pace con la nostra vita e portarci dietro, per il dopo, una sensazione… di libertà.
Due momenti di vita a casa: cena cucinata da mia figlia, e pisolino del cane, col gatto che gli tiene un’orecchia (amore tra animali).
Questo tempo di costrizione in casa è stato per me un tempo di cura… di cura di mio figlio di 8 mesi, di cura del mio compagno, di cura di me stessa. Un tempo attivo in cui poter riscoprire i propri hobbies o cercarne degli altri. Un tempo ritrovato che mi mancava avendo ricominciato a lavorare a soli tre mesi dal parto. Un tempo dolce, fatto di coccole, condivisione e gioco ma contemporaneamente fatto di mancanze e preoccupazioni. Quando ci sono dei momenti no, guardo questo disegno fatto con le manine e i piedini di mio figlio e sento che andrà tutto bene e riscopriremo con piacere quelle piccole cose che prima davamo per scontate
È una scena che si svolgeva al tavolo vicino, mentre questa estate facevo colazione in montagna, credo che oggi infonda una sensazione ancora più intensa di cura e speranza nel primo giorno di primavera.
Ieri era la festa del papà, la terza da quando il mio non lo vedo più. Fa sempre uno strano effetto, perché di base è strano. È strano svegliarsi un giorno e riadattarsi ad una nuova quotidianità, dolorosa, faticosa, angosciante. Poiché poi so bene che il rumore è un antidolorifico quasi assordante, avevo ancora più paura di quanto lontano sarebbe andata la mia testa. Ho imparato però che si sopravvive, o meglio bisogna sopravvivere. Ieri non è stata una giornata semplice, ma questa volta, piuttosto che su papà mi sono concentrata su mamma. Questi giorni li ho passati ad osservarla, rendendomi conto che la conosco profondamente bene, e che molte delle cose che fa ho imparato a prevederle. Per quanto ci siano dei lati di lei che mi infastidiscono tremendamente, in queste due settimane non sono stati per niente ingombranti. Avevo paura che questo accadesse: siamo due persone forti che con estrema forza spesso si sono scontrate. È come se avessimo imparato a prenderci, a capirci. Forse sono io che sono un po’ più adulta, o lei un po’ meno rigida, o forse entrambe le cose. Ieri ho notato che mamma fiorisce in primavera, proprio come fanno i fiori. Ho notato che il sole le migliora l’umore, che già di suo è sempre meravigliosamente allegro. Ho notato che poche cose la rendono felice come il suo tavolino in balcone e che se dovesse rifarsi una vita se la rifarebbe in una casa con terrazzo. Mamma è una donna complicata, ma in un modo così dolce che a me ormai appare semplice. Sarà che non lo è la prima volta che ho dovuto farlo, ma alla fine riadattarmi a questa realtà nuova, dolorosa, faticosa e angosciante è stato più semplice di quanto immaginassi. Io le mie paure le ho ancora, e non sentivo il bisogno di affrontarne di nuove però ieri era la festa del papà, e ho pensato che in fondo fino a quando potrò guardare mamma togliersi il maglione per rubare un po’ di sole primaverile, potrò sempre ritenermi fortunata.
E poi ti ritrovi a casa e la cosa non ti dispiace, perché da tempo avevi bisogno di più tempo. Ti butti sul letto e non guardi l’orologio pensando a lavoro, università, amici, relazioni e quant’altro. Sei tu con le tue passioni e ti basti. Vedi film, tanti, tutti quelli salvati fra i preferiti ormai da anni. Scopri che attaccare al pc quella scheda audio comprata tanto tempo fa e registrare una piccola cover non era poi così difficile come ricordavi. Il programma gira, è intuitivo, e ci hai messo solo dieci minuti a tirarla giù. La memoria inganna? Sicuro. La prima bozza di registrazione è Bob Dylan ed impari subito qualche trucchetto per fare una registrazione degna di essere chiamata tale, seppur casalinga. Poi guardi su Instagram, Facebook, in TV, tutto il mondo parla di noi. Si parla del cuore di tutte quelle belle persone affacciate alla finestra. Ti emozioni guardando video di coppie anziane che ballano su un balcone, o un trombettista sconosciuto che anima una palazzina intera. Ti emozioni a parlare con il vicino dal portico di casa, non lo avevi mai fatto prima. Poi una mattina ti svegli con una canzone in testa. Inizi a provarla ad orecchio con la chitarra, poi la studi e qualche ora dopo è fatta. Oggi la condividi, non lo avresti fatto prima. Non hai grandi balconi o palazzine dove ritrovarti a suonare, ma vorresti comunque fare la tua piccola parte, condividere, oltre che rimanere a casa.
Vorrei ricollegarmi alla riflessione di Ludovica, li dove evidenzia quella sensazione di prigionia, emersa da questo periodo surreale che stiamo vivendo, e da cui sto cercando di uscire attraverso una routine che mi proietti metaforicamente fuori dalle mura domestiche. Anche io, durante la prima settimana di quarantena, mi sono trovato nelle medesime condizioni di Ludovica facendo le stesse considerazioni. Non è facile accettare questa nuova realtà ritrovandoci privati dei nostri contatti naturali. Fortunatamente la tecnologia ci sta venendo in aiuto per mantenere e forse anche riscoprire contatti, amicizie e, perchè no, anche amori. Dopo l’iniziale shock, sta cominciando a comparire una realtà del tutto nuova in cui il tempo non sembra scorrere ma chiama ad un ripensamento delle abitudini quotidiane per superare la noia e il malessere che ne deriva. Così da qualche giorno, ho cominciato ad interessarmi a passioni che avevo trascurato per il poco tempo lasciato libero dall’università: ho ripreso a leggere, a suonare il pianoforte, a provare anche con la chitarra e… cucinare! Sono partito, con una mia amica in videochat, con un piatto giapponese “leggero,leggero” i Gyoza con salsa di soia piccante! Eccoli qua:
Vorrei essere capace anche io, in questo momento di scrivere qualcosa di ottimista, di infondere coraggio. Vorrei anche io riuscire ad avere una quarantena placida, fra libri, film e dolci. Invece, mi sento agitata ed irrequieta, concentrarmi su qualcosa mi è molto difficile. E questa mia reazione mi spaventa. L’unica cosa che sento di poter condividere è questa foto, una neonata pianta di zucchina. Mi piace guardarla e pensare che cresce, forte e vigorosa, nonostante tutto. Sembra che mi dica le parole che ho ascoltato in un film ieri sera e che dicevano così: “la fine non esiste, aspettiamo, qualcosa succederà”.
Quello che in queste ore colpisce di più il mio vivere è “cogliere l’essenziale”. Mi sembra che niente sia così indispensabile, abbigliamento , supermercato, parrucchiere, la fretta di fare, riusciamo anche a vivere di poche cose, di quelle che già abbiamo, di tutto quello è con noi perchè lo abbiamo comperato tanto e poco tempo fa. Quello che sento essenziale, la comunicazione umana ed affettiva non c’è secondo i canoni a me comuni, bisogna inventarsi modi, parole, immagini e gesti che non sono immediati vengono da lontano nel nostro cervello. E così per esempio oggi, festa del papà ho fatto arrivare la cena ai papà della mia famiglia, i mariti delle mie figlie e al loro papà, tramite la rosticceria vicina. Mi sembra di poter affermare che in questa situazione di pericolo, non è tanto la preoccupazione del virus ma è il pensare un cambiamento improvviso e sconosciuto di un nuovo modo di vivere che mi spinge con forza a riflettere su orizzonti sconosciuti, questo mi dà coraggio, non mi rattrista .
Ai papà della mia famiglia, Maria Francesca
Quello che in queste ore colpisce di più il mio vivere è “cogliere l’essenziale”. Mi sembra che niente sia così indispensabile, abbigliamento , supermercato, parrucchiere, la fretta di fare, riusciamo anche a vivere di poche cose, di quelle che già abbiamo, di tutto quello è con noi perchè lo abbiamo comperato tanto o poco tempo fa.
Quello che sento essenziale, la comunicazione umana ed affettiva non c’è secondo i canoni a me comuni, bisogna inventarsi modi, parole, immagini e gesti che non sono immediati vengono da lontano nel nostro cervello .
E così per esempio oggi, festa del papà ho fatto arrivare la cena ai papà della mia famiglia, i mariti delle mie figlie e al loro papà, tramite la rosticceria vicina.
Mi sembra di poter affermare che in questa situazione di pericolo, non è tanto la preoccupazione del virus ma è il pensare un cambiamento improvviso e sconosciuto di un nuovo modo di vivere che mi spinge con forza a riflettere su orizzonti sconosciuti . Questo mi dà coraggio , non mi rattrista .
Questo evento ha radicalmente sconvolto le nostre vite, dai gesti più semplici a quelli più complessi. Anche preparare un dolce, fare il pane in casa, assume un significato diverso: ci conduce in quelle stanze dei ricordi che spesso teniamo ben chiuse, in quelle stanze dove infinita pazienza, amore, premura, un tempo erano in cima alla lista delle nostre giornate ma oggi, tutto ciò non ci appartiene più, non ne conosciamo più il loro valore. E domani, ricordiamoci di tutti quegli abbracci che in questi giorni non abbiamo potuto dare, quegli abbracci che scaldano il cuore, quegli abbracci che avvolgono, che riempiono d’amore, che spazzano via la paura, l’ansia e l’angoscia dell’indefinito.
Perché un abbraccio, invece, definisce sempre. Definisce un’Amicizia, definisce un Amore. Definisce se stessi, si, anche se stessi”
L’arte è la linfa vitale dei nostri giorni.
Oggi più che mai ne abbiamo bisogno per sentirci eterni, per cristallizzare un momento felice, per uscire di casa con la fantasia, se proprio non possiamo farlo fisicamente.
Spero che questo piccolo contributo possa essere interessante. E’ stata scritta da un amico poeta, Jarek Mikolajewski.
“alla lezione di metafora il maestro ha portato
il virus del disprezzo
e della stoltezza
il virus dell’appiattimento della sacra immaginazione
della beata nostra mamma pieta’
e della serva di dio grazia del perdono
ha tirato il maestro dal cassetto i vetri da preparato
ha infilato sotto il microscopio e messo
a fuoco il quadro
e’ cosi’
ha detto
che funziona la semplificazione
il disprezzo
la stoltezza
l’appiattimento dell’ immaginazione
del perdono
e della pieta’
il battesimo appiattito al bisogno di dare nome
come virus che non e’ metafora di nulla
bensi’ esegue la sua solita fatica
naturale
sconfinata
libera dal giudizio”
Sul Web gira di tutto, da frasi come: “prima avevo sete e andando a prendere l’acqua ho conosciuto delle persone, dicono di essere i miei genitori, sembrano simpatici” a video patriottici di persone che cantano ballano in balcone.
Questo è un periodo particolare, un periodo che potremmo prenderci per stare davvero tutti insieme, indipendentemente dalle diversità, un tempo solo per noi, per ascoltare i nostri silenzi venire spezzati dal caos che abbiamo accumulato in testa durante i periodi di grande stress.
Personalmente non sto vivendo bene la quarantena, non perché io non riesca a vedere i benefici effettivi a cui questa potrebbe portare, ma perchè non mi sento pronta, e non avrei mai scelto volontariamente di rimanere così tanto sola con me stessa.
Ho combattuto tanto tempo per cercare di uscire dalla gabbia in cui io stessa mi ero rinchiusa e trovarmi improvvisamente lontana dalla stabilità e dalla routine che mi ero costruita per andare avanti mi destabilizza ancor di più e mi fa sentire sempre più prigioniera di un alter-ego che non mi appartiene.
Questo tempo sto cercando di dedicarlo a tutto quello che dovrei fare, a tutte quelle cose per le quali mi sono sempre lamenta di non avere tempo, essendo io una studentessa principalmente parlo di approfondire gli studi e fare meglio progetti che meritano più attenzione.
Sto cercando di dedicarlo ad essere più coerente con la me stessa che vorrei potesse un giorno uscire lì fuori vestita da supereroe e sconfiggere questo gigantesco mostro che per tanto tempo mi ha chiusa in casa a testa bassa e che adesso, con l’ “occasione” di questa epidemia, sento essere tornato a minacciarmi.
Passiamo il tempo a lamentarci di dover uscire per forza, passiamo il tempo a dire che non abbiamo tempo per vivere la vita come vorremmo, per leggere quel libro che da mesi accumula polvere sul comodino, per sistemare l’armadio, per fare ginnastica, per cominciare la dieta, “e anche oggi inizio domani”. Questo momento di pausa dalla vita frenetica ci potrebbe davvero aiutare a capire come riprendere in mano le nostre piccole cose, ma al tempo stesso è fondamentale non perdere la routine della vita che tutti i giorni conduciamo lì fuori, perché una volta finita questa cosa, una volta finita la reclusione forzata, verremo di nuovo catapultati in una realtà che andrà più veloce di prima, e la prospettiva che ci aspetta è finire come Willy il Coyote che rincorre Beep Beep.
E’ importante mantenere la calma, cercare di trovare un giusto modo per comunicare con noi stessi, senza angosciarci e stressarci, trovare il tempo per parlarci e per apprezzare tutto ciò che diciamo sempre mancarci in una quotidianità più serena, ma al tempo stesso, cerchiamo sempre di far bruciare il fuoco che permetteva alle nostre menti di uscire di casa tutti i giorni, in modo che questo possa tenerci al caldo e prepararci a riscaldare una città fantasma che nel frattempo fa come le torri sulle muraglie in periodo di guerra, accende una fiaccola dopo l’altra per passare un messaggio, fino a che non si arriva allo scontro, e noi da questo scontro usciremo feriti e sanguinanti, ma non è il primo ne sarà l’ultimo a segnare la storia dell’umanità, e bisogna affrontarlo sempre a testa alta e tanta, tanta aria nei polmoni a gonfiarci il petto, anche se ci sentiamo soffocare dallo nostre stesse quattro mura.
Lo so che sembra facile detto da casa propria, dal caldo del proprio divano, mentre migliaia di persone stanno combattendo in corsia per sconfiggere un male severo e inaspettato. L’opportunità c’e’ davvero però, e si chiama Tempo.Io sto assaporando, dopo la prima settimana di destabilizzazione quasi ovvia, una sensazione molto strana. In questo stato di attesa e di raccoglimento generale nelle nostre case, chiusi in nuclei familiari basici ed essenziali, io sto assaporando il gusto di cose che avevo davvero messo – volontariamente – in un dimenticatoio. Riscoprire il Tempo che non mi sono quasi mai concessa, nella vita frenetica di ogni giorno, per preparare un tavolo pieno di colori per i miei bimbi e dipingere con loro mentre ascoltiamo musica. Il Tempo di aprire e sistemare degli angoli della casa che non tocco mai per la paura di doverci solo mettere mano. Il Tempo per scegliere cosa tenere e per buttare via quello che (da troppo tempo!) non ricordo neanche più di avere – e se una cosa la metti via e dopo un anno non l’hai mai cercata evidentemente si potrebbe già facilmente farne a meno-. Il Tempo per cucinare piatti mai sperimentati (per mancanza di Tempo!) e il Tempo necessario per sentire la mancanza delle persone…..o anche per scoprire con stupore che certe persone non ci mancano proprio. Non voglio dire che questa cosa sia un’esperienza leggera e senza forti conseguenze emotive, soprattutto riguardo le incertezze economiche e per il futuro; però mi sento di affermare che, almeno nel mio caso di persona che da anni “sfugge” letteralmente ad ogni stasi, questo Tempo ritrovato è anche piacevole. Vedremo cosa succederà nelle settimane a venire, ma sto cercando di scandirlo questo Tempo affinché’ io possa abituarmi a quanto si è dilatato, e affinché , una volta che si tornerà’ alla vita di sempre, io possa conservare la capacità di gestirlo molto meglio di quanto non abbia mai fatto fino ad adesso.
Ringrazio Francesca per il suo contributo.
E’ vero che questo Tempo, come giustamente scrive, con la T maiuscola, è un tempo ritrovato, un tempo che forse neanche sapevamo di avere o che avevamo dimenticato. C’è tempo per giocare con i propri figli, per leggere, per scrivere, per ascoltare musica, per accorgersi se una relazione funziona o no, c’è un tempo per prendere coscienza delle cose. E’ il tempo della consapevolezza e possiamo farne buon uso.
Mi piace aggiungere di seguito una strofa di un bellissimo brano di Ivano Fossati
“C’è un tempo perfetto per fare silenzio
Guardare il passaggio del sole d’estate
E saper raccontare ai nostri bambini quando
È l’ora muta delle fate”
(Ivano Fossati “C’è tempo”)
Infine dieci piccoli consigli pratici per rendere questo tempo un tempo “vivo”:
1) diversificare le attività e spalmarle nell’arco della giornata.
2) evitare comportamenti compulsivi (es: cucino tutto il giorno, faccio attività sportiva forsennatamente, seguo tutti i notiziari e gli aggiornamenti su internet 3) parlarsi dai balconi, dalle finestre, dalle terrazze
4) in assenza di balconi andare sulla terrazza condominiale a turno per fare ginnastica, leggere all’aperto, ascoltare musica o semplicemente godersi il panorama
5) evitare di guardare troppi notiziari in televisione o su internet, le immagini rimangono impresse nella memoria e si riattivano durante il giorno. Meglio ascoltare le notizie alla radio.
6) fare pulizie, cambiare la disposizione dei mobili, fare una cernita negli armadi, scartare quello che non ci serve più
7) tenere un piccolo diario di questi giorni annotando riflessioni di carattere generale e stati d’animo
8) condividere con i propri familiari le proprie emozioni, la paura, il disagio, la frustrazione ma anche la speranza e l’ottimismo
9) essere di aiuto ai più deboli, offrirsi di fare la spesa per la signora del piano di sotto che è più anziana e più esposta al contagio
10) ripetersi che si è parte di una comunità che non si è soli , che stiamo lottando tutti per un unico obiettivo, il bene comune.