A prima vista sembra un concetto molto semplice, ma approfondendolo anche solo di poco, si può quasi immediatamente intuire quante implicazioni esso disveli su una gran parte delle difficoltà psichiche che incontriamo con noi stessi e con gli altri. Infatti la comunicazione e la relazione umana non sono rappresentazioni fotografiche di ambienti e situazioni, ma un insieme complesso di significati e intenzioni che animano gesti, comportamenti, scelte, reazioni che siamo chiamati continuamente a decodificare per poter vivere e progredire. Per fare questo, costruendo una vita quanto più possibile soddisfacente, è dunque importante che il processo di rappresentazione mentalizzante funzioni in maniera adeguata.
Secondo la teoria dell’attaccamento, lo sviluppo del Sé, inteso come rappresentazione della propria esperienza, si realizza nell’ambito dei processi di regolazione affettiva che avvengono all’interno delle primissime relazioni.
Per realizzare una normale esperienza del proprio Sé, il neonato ha bisogno che i suoi segnali, espressione di stati emotivi interni ancora indefiniti, trovino un rispecchiamento adeguato da parte di un caregiver che li definisca per lui. I neonati, infatti, sono costituzionalmente predisposti a rintracciare una versione dei propri stati mentali nel rispecchiamento agito da chi si prende cura di loro.
In questo rispecchiamento il bambino tende ad assimilare l’espressione del caregiver alla propria esperienza emozionale in quanto non è ancora in grado di leggerla come manifestazione dell’altro. Se le risposte di rispecchiamento dell’adulto però, non riflettono l’esperienza del bambino in modo adeguato, questi è comunque costretto a utilizzare tali restituzioni incongrue per cercare di organizzare i propri stati interni.
Come già suggeriva WINNICOTT (1956), quando un bambino non riesce a sviluppare una rappresentazione della propria esperienza (il Sé) attraverso il rispecchiamento, egli interiorizza l’immagine del caregiver come parte della propria rappresentazione di Sé. La condizione che ne deriva è detta SÉ ALIENO e l’esperienza soggettiva che ne consegue può essere quella di stati d’animo e pensieri “conosciuti come propri” ma non “sentiti come propri”.
Ma prendere la mente dell’altro, con la sua distorta, assente o addirittura maligna immagine del bambino stesso, come parte integrante del proprio senso di identità può costituire il germe di un oggetto potenzialmente persecutorio che ha sede all’interno del Sé, ma che in realtà è estraneo e non assimilabile; si presenterà allora il disperato desiderio di separazione nella speranza di stabilire un’identità o un’esistenza autonoma libera dall’angoscia generata dalla presenza dell’oggetto persecutorio.
Paradossalmente quindi, quando la ricerca di rispecchiamento e contenimento del bambino non ha avuto esiti positivi, la successiva spinta verso la separazione e l’autonomia darà luogo solo a un movimento verso la fusione. Infatti, avendo assimilato al posto del proprio Sé quello alieno dell’altro, più l’individuo cerca di essere se stesso, più diventa simile al suo oggetto, perché questo è parte integrante della struttura del Sé.
Quando nella tarda adolescenza o prima vita adulta, la spinta proveniente dall’esterno verso la separazione diviene irresistibile, il comportamento autodistruttivo e, nei casi estremi, suicidario è percepito come l’unica soluzione all’insolubile dilemma: la liberazione del Sé dall’altro attraverso la distruzione dell’altro nel Sé.
Peter FONAGY è Psicologo e Psicoanalista, Freud Memorial Professor of Psychoanalysis allo University College di Londra e Chief Executive presso l’Anna Freud Center.