Lo Studio Associato Psiché svolge attività di diagnosi e trattamento dei disturbi di ansia e attacchi di panico, fobie, depressione, condotte alimentari disfunzionali come anoressia e bulimia e di tutti quei problemi di relazione che ostacolano o rendono difficile un equilibrato svolgersi della vita quotidiana sia nella coppia che nella famiglia.
Ove necessario, lo studio si avvale della collaborazione in sede, di specialisti nel campo neurologico, psichiatrico e nutrizionistico.
E’ possibile parlare di Disturbo d’Ansia quando i sintomi descritti di seguito non sono dovuti agli effetti di:
- assunzione di sostanze o farmaci
- condizioni di patologia fisica
- disturbi mentali specifici
Il Disturbo d’Ansia si differenzia dalla normale paura o dalle ansie generiche per l’intensità dei sintomi ma soprattutto per la loro persistenza (6 o più mesi). I suoi primi segni, come descritti nel DSM-5 (American Psychiatric Association 2013), si riferiscono ad aspetti fisiologici quali:
- aumento del battito cardiaco
- aumento dell’allerta-concentrazione verso la minaccia percepita
- attivazione del sistema attacco-fuga
mentre i sintomi più comuni sono:
palpitazioni, tachicardia, aumento della sudorazione, tremori di varia intensità, difficoltà respiratorie quali affanno, respiro corto, mancanza d’aria, sensazione di soffocamento, di asfissia, dolore o fastidio al petto, nausea o disturbi addominali, sensazioni di vertigine, di instabilità, di “testa leggera” o di svenimento, brividi o vampate di calore, sensazioni di torpore o di formicolio, depersonalizzazione (la sensazione di essere distaccati dal proprio corpo), derealizzazione (la sensazione di percepire in maniera distorta il mondo esterno), paura di perdere il controllo o “impazzire” e paura di morire.
Chiaramente non tutti questi sintomi si presentano contemporaneamente in uno stesso soggetto, molto più spesso solo alcuni di essi si manifestano combinandosi tra loro in vario modo a seconda della situazione personale ed ambientale presente, generando la condizione che si definisce Disturbo d’Ansia.
Si parla invece di Attacco di Panico quando il soggetto prova un’improvvisa paura o disagio intensi in situazioni anche apparentemente neutre, che raggiungono un massimo di intensità in pochi minuti, accompagnati da quattro o più dei sintomi sopraelencati.
Le cause del Disturbo d’Ansia e dell’Attacco di Panico spesso risiedono in situazioni o abitudini psicologiche, contesti ambientali o relazionali che il soggetto fa fatica a collegare, riconoscere e contestualizzare con il disturbo stesso, a volte sottovalutando l’incidenza di fattori, la cui banale familiarità quotidiana, paragonata all’eccezionale intensità dei sintomi, non permette di riconoscerli come generatori del senso di disequilibrio e di allarme tipico del disturbo.
IL DISTURBO DEPRESSIVO
La depressione è un disturbo ampiamente diffuso che influenza sia la mente che il corpo incluse le funzioni cognitive, il comportamento, il sistema nervoso e il sistema immunitario.
A differenza di un umore triste passeggero, la depressione è considerata un disturbo perché interferisce con il normale funzionamento lavorativo, scolastico e, più generale, relazionale.
La depressione può variare per intensità da un’esperienza sfumata ad un disturbo clinico gravemente invalidante. Sulla base dell’intensità sintomatologica si distinguono:
DISTURBO DEPRESSIVO MAGGIORE
(episodio singolo, episodi ricorrenti).
L’episodio depressivo è definito come un periodo della durata di almeno due settimane durante il quale una persona si percepisce incapace di provare qualsiasi piacere, accompagnato da sintomi quali la perdita di sonno, di appetito, di desiderio sessuale, di interesse per i piaceri della vita (anedonia). Il tratto distintivo è un costante sentimento di colpa in assenza di cause reali, la presenza di deliri di rovina e la presenza di pensieri suicidari. La qualità, l’intensità e la natura dirompente dei sintomi sono gli elementi più rilevanti da un punto di vista clinico. Una valutazione attenta include uno screening di problemi medici che possono causare sintomi simili a quelli della depressione (diabete, disturbi della tiroide, morbo di Parkinson, sclerosi multipla) e una valutazione della presenza di un disturbo di dipendenza da sostanze psicotrope.
La depressione maggiore si manifesta con una combinazione di sintomi che interferiscono con le capacità lavorare, studiare, dormire, mangiare e in genere di godere di alcuni aspetti della vita. Il comportamento presenta pianto, perdita di interesse per attività precedentemente amate, indifferenza per le interazioni sociali, trascuratezza nell’aspetto, rallentamento motorio e della produzione del pensiero.
DISTURBO DISTIMICO
Distimia viene dal greco “δυστυμία» e significa “avvilimento“, termine che descrive piuttosto bene il nucleo del disturbo. Infatti, molte persone che ne soffrono, descrivono la patologia come la percezione di un velo steso sulla vita, che gli fa apparire tutto e tutti come avvolti dal grigiore che risucchia ogni colore della vita, e non ci sono né alti né bassi: la vita scorre ma senza stagioni.
Forma di depressione in cui i sintomi si manifestano in modo più attenuato, ma spesso più radicato. In generale il disturbo depressivo presenta due diversi andamenti:
si intensifica in modo crescente sempre più fino ad una specie di acme, oppure va a fasi. In quest’ultimo caso, la persona che ne soffre, qualche volta sta peggio qualche volta sta meglio;
nella distimia invece, il soggetto sta male in modo permanente, spesso per anni o perfino per decenni.
Nella depressione maggiore il dolore fisico può raggiungere livelli e intensità profondi, mentre nella distimia no. Questo, che a prima vista può apparire come un vantaggio, in realtà in termini di possibilità terapeutiche si rivela un grosso ostacolo verso la cura e la guarigione, perchè chi è affetto da depressione maggiore può richiedere o essere spinto al trattamento dall’aggravarsi dei sintomi, mentre il distimico può avvertire lo stato di tristezza come una condizione esistenziale in cui si identifica e che non riconosce come uno stato patologico da curare. I pazienti distimici in genere arrivano a richiedere un aiuto terapeutico solo quando allo stato d’animo consueto si associa un episodio di depressione maggiore, spesso conseguenza di eventi che la distimia ha contribuito a generare per la scarsa propensione a reagire e a cercare soluzioni come separazioni, perdita del lavoro, di amicizie ecc. A quel punto si parla di “Doppia Depressione”.
Infatti la distimia è caratterizzata da sintomi stabili e cronici che non sono di per sé invalidanti ma che impediscono un buon funzionamento, soprattutto relazionale e intaccano il senso di benessere.
Le cause dei disturbi depressivi spesso sono collegate alla sperimentazione dell’abbandono nella primissima infanzia, reale o vissuta come tale, e a una relazione disfunzionale con il caregiver (madre o altra figura di attaccamento) che, non riconosciute ed elaborate, portano ad un sentimento di autosvalutazione e di colpa, tratto distintivo delle persone colpite da questo disturbo.
(Fonte PDM-2)


Negli ultimi decenni, nel mondo occidentale, il rapporto con il cibo si è andato progressivamente complicando fino a raggiungere livelli in molti casi drammatici. Si mangia e poi ci si osserva sotto l’effetto di pressioni sociali e culturali in contrasto tra loro. Da una parte l’offerta continua e abbondante di cibi attraenti, dall’altra il culto estetico della magrezza e della forma fisica, rappresentate in immagini esasperate e condivise. Così il comportamento più naturale per qualsiasi essere vivente, mangiare, si è andato trasformando in un paradigma comune ma disfunzionale, attraverso il quale esprimere la difficoltà di vivere, la sofferenza e l’infelicità. Sono comparsi i Disturbi Alimentari come Anoressia nervosa, Bulimia nervosa Disturbo da alimentazione incontrollata.
ANORESSIA
Il sintomo più evidente dell’anoressia nervosa è il rifiuto di mantenere il peso entro livelli adeguati all’età, dimensioni corporee, e stile di vita. Un marcato dimagrimento, improvviso o progressivo, è in genere il primo segnale indicatore del disturbo, in assenza di altre patologie organiche. Nelle donne, colpite per il 95,4% contro il 4,1% degli uomini (stime 2018 dell’Osservatorio DCA della Presidenza de Consiglio), la perdita di peso è accompagnata dalla scomparsa delle mestruazioni.
La malattia insorge con un’attenzione sempre più intensa sul proprio peso, con un forte desiderio di divenire ed essere magri. Via via questa preoccupazione cede il posto a una illogica e angosciante paura di ingrassare e all’adozione di comportamenti estremi finalizzati alla perdita di peso.
La fobia persiste anche quando il peso corporeo è così basso da rappresentare un rischio per la vita stessa e la paura di ingrassare tende a progredire quanto più la persona diventa magra. Solo il rigido controllo sull’alimentazione consente di ridurre l’ansia che assale ogni qualvolta ci si avvicina al cibo.
In genere il percorso che porta all’anoressia nervosa è quella di una dieta intrapresa con lo scopo di perdere qualche chilo in più, di migliorare il proprio aspetto fisico ritenuto in qualche modo inadeguato e di correggere quelle abitudini alimentari ritenute sbagliate e dannose. A mano a mano il cibo diventa un “sorvegliato speciale” attraverso un controllo sempre più rigido con una crescente paura di perderne il controllo che induce all’eliminazione di molti alimenti in precedenza assunti senza particolari problemi e ora identificati come ipercalorici e pericolosi: primo fra tutti “l’olio d’oliva”. La scelta cade prevalentemente su frutta e verdura, mentre carboidrati e proteine son limitati al minimo se non eliminati completamente, aumenta il consumo di bevande molto calde, a volte bollenti fino all’ustione, per contrastare il freddo, lo stimolo della fame e aumentare la sensazione di sazietà. Compaiono strategie finalizzate a evitare o allontanare l’orario del pasto, come ad esempio prendere impegni per l’ora di pranzo, rinviare il momento del pasto, preparare soltanto pietanze poco gradite. A volte il cibo può essere avvicinato solo “dopo averlo mortificato”, ad es. cibi freschi lasciati a lungo fuori dal refrigeratore in estate con la scusa di non gradire cibi provenienti dal frigo. L’insieme di tali comportamenti determina nel tempo la perdita della capacità di riconoscere gli stimoli enterocettivi della fame e della sazietà, con conseguente angoscia di fronte alle quantità delle pietanze. Nelle forme più collaborative, il soggetto tende a chiedere ai familiari se ha mangiato troppo o troppo poco e questa incapacità più generale alla misura di sé sembra essere un nodo centrale della patologia. Quando non si è più in grado di controllare la situazione, si innesca un automatismo del pensiero “devo mangiare il meno possibile per non ingrassare” o un pensiero ossessivo su quanto esercizio fisico sia necessario, subito dopo aver mangiato, per smaltire le calorie introdotte con il cibo.
Il timore costante che, se si allenta il controllo, il peso prenderà il sopravvento fino a dimensioni inimmaginabili, si accompagna ad un progressivo sviluppo dell’attività intellettiva con sforzi estenuanti ad es. nello studio, per raggiungere risultati di eccellenza nell’intento di dimostrare a se stessi di controllare la sensazione di pericolo proveniente dal corpo con l’ipersviluppo delle abilità mentali. Spesso i genitori, non potendo cogliere il nesso patologico fra i due aspetti, tendono a pensare con un certo orgoglio compensatorio: “però almeno a scuola va benissimo”.
LA DIPENDENZA
quell’appoggio che non troviamo altrove
Gli oppioidi endogeni o endorfine sono neurotrasmettitori, messaggeri del piacere e dell’ottenimento della ricompensa e dell’alleviamento del dolore e della sofferenza sia fisica che psicologica. Essi regolano quasi tutto nelle relazioni interpersonali e questo fin dal principio: sono rilasciati già nei neonati quando vengono allattati e si trovano in strettissimo contatto fisico con la mamma o con il care-giver. Quando crescono e capita ai bambini di cadere, la mamma soffia sulla ferita, non è tanto il soffiare a risultare efficace: è la presenza materna che trasmette al figlio una scarica di endorfine. La vicinanza amorevole di un’altra persona agisce su di noi come un analgesico, che ci fa sentire accuditi e amati. Crescendo, le difficoltà aumentano e così anche la disponibilità di sostanze che permettono di alleviare dolore, angoscia, paura ecc.
La sostanza che provoca dipendenza, diventa così un surrogato della figura di attaccamento. Prima di consumarla subentra un’eccitazione euforica, mentre dopo si è sopraffatti da un rilassamento di breve durata, lo stesso rilassamento che si potrebbe sperimentare attraverso il contatto con una figura di attaccamento. Tuttavia l’appagamento attraverso un surrogato non è mai tanto completo come quello che si otterrebbe tramite ciò che veramente vogliamo e di cui abbiamo bisogno. Vincent FELITTI (Medico USA) dice a questo proposito “è difficile averne abbastanza di qualcosa che sembra quasi funzionare“.
È così stato proposto da Peter COHEN di chiamare la dipendenza per ciò che esprime davvero, cioè “attaccamento”. Se non riusciamo a stabilire un legame con gli altri, ci rivolgiamo a un surrogato. Persone che diventano dipendenti cercano attaccamento, calore, sicurezza e protezione, cercano di alleviare le sofferenze, rendere tollerabile il ricordo di cose negative, provare quell’emozione che sussurra loro: “è tutto a posto, sei al sicuro“ : tutto ciò che qualcuno non è stato in grado di offrire loro.
Il Nucleus Accumbens (una piccola struttura alla base del cervello), molto vicino all’amigdala, prende accuratamente nota di quali modalità di comportamento producono stati d’animo piacevoli o riducono i sentimenti spiacevoli. Quando facciamo qualcosa che abbiamo giudicato positivo e che per questo è stato premiato con rilascio di dopamina (neurotrasmettitore implicato nel desiderio della ricompensa), il Nucleus Accumbens con tutta probabilità la volta successiva indurrà la ripetizione di quel comportamento.
Quasi tutte le droghe portano a una scarica di dopamina. Particolarmente intenso è l’effetto di amfetamine, cocaina, eroina e morfina. Anche nicotina, marijuana e hashish producono un rilascio di dopamina, mentre l’alcol incrementa la dopamina nel Nucleus Accumbens.
All’interno di una coppia operano dinamiche complesseche spesso sfuggono alla comprensione diretta: quanto siamo conoscibili e prevedibili all’altro, e a noi stessi?
Spesso si sente dire “l’abitudine uccide il desiderio”, ma è realmente possibile che una persona che si ama possa diventare un’abitudine? Forse il declino del legame che viene fatalisticamente attribuito al “passare del tempo”, non è una caratteristica costituente della natura dell’amore, né un destino ineluttabile.
All’inizio di una storia d’amore la “chimica” crea per noi quell’alchimia di sensazioni, attrazioni e sentimenti che ci legano ad un’altra persona. A volte ci abbandoniamo a questo stato d’animo senza un chiaro perchè, a volte costruiamo spiegazioni che ingenuamente cercano di arginare la potenza del mistero che ci avvolge e cattura in un turbinio di sensazioni così paradossalmente simili a quelle di un “disturbo ossessivo transitorio” anche nella perdita o abbassamento del senso critico. Poi, dopo il potente “incipit”, inoculato per creare la coppia, la natura sembra cedere i comandi ai due “prescelti” perchè comincino a costruire la loro storia. Molto spesso questo fisiologico abbassamento della tensione emotiva dell’inizio viene però percepito come delusione “tu all’inizio eri più premuroso…ma tu eri più affettuosa” come se ci si innamorasse di quello stato di grazia iniziale, desiderando che duri in eterno e non ci si si rendesse conto che l’amore, come ogni impresa, avventura e costruzione umana, per continuare a vivere ha bisogno di “manutenzione”. Infatti, malgrado il nostro desiderio di pensarlo duraturo, l’amore per sua natura non è stabile e gran parte della sua complessità deriva dall’equilibrio tra ciò che è personale e ciò che è in relazione; tra l’unicità e la “dualità”.
La nostra vita psichica sin dalle primissime fasi e per tutta la sua durata, è prevalentemente il frutto delle relazioni con gli altri, tuttavia la nostra esperienza mentale si organizza in strutture che comprendono aree interne inviolabili, distinte, dotate di confini in parte negoziabili e in parte no, spesso sconosciute a noi stessi. Delle “zone d’ombra” all’interno delle quali pure si muovono e vivono tensioni, desideri, paure, sentimenti; altre parti di noi con le quali non abbiamo familiarità ma che comunque ci appartengono.
Così molto spesso, ciò che inconsapevolmente ci attrae nell’altro, non è tanto la sua alterità – come spesso si dice “gli opposti si attraggono”- ma l’opportunità di entrare in contatto, attraverso l’altro e a distanza di sicurezza, con aspetti profondi di noi stessi che, per quanto rimossi, rifiutati, negati restano pur sempre parte di noi ed emanano la fascinazione del ricongiungimento. Soprattutto nella fase iniziale dell’amore, possiamo provare un senso di appagamento e di totalità che emana proprio dal successo di questo processo interno.
In questo modo possiamo credere di eliminare quella sgradevole sensazione generata dagli squilibri interni, anche se ad essi non sappiamo dare né un nome né una forma, ma il partner che scegliamo come complice di questo processo, a sua volta può essere guidato dagli stessi meccanismi. Ironia della sorte allora, in molte relazioni la caratteristica manifesta che ci attrae nell’altra persona può invece essere una difesa contro il tratto esattamente opposto. L’apparente incrollabile solidità di lui, magari è una difesa contro una caotica precarietà mentale; la vitalità di lei forse è una collaudata difesa da una sottostante depressione.
Quando cominciamo ad amare una persona dunque, non stiamo scoprendo solo quella persona, ma noi stessi come siamo e come diventeremo con lei, questa è la “manutenzione della coppia” a cui siamo chiamati dopo “l’incipit della chimica”, lungo un percorso di consapevolezza che ci porti a non valutare sempre i gesti dell’altro come avulsi dalle nostre caratteristiche, ma come complementari ad esse, anche quando sembrano sideralmente lontani dalle nostre intenzioni: le nostre “zone d’ombra” lo sono prima di tutto per noi.
Mario Brunetti
“Agli albori della cultura occidentale, Aristotele affermava che l’uomo è un animale sociale. Ma è solo negli ultimi decenni che siamo riusciti a capire realmente quanto siamo sociali in tutto e per tutto. Siamo nati con cervelli che hanno bisogno di estese interazioni sociali e del linguaggio per poter completare la loro rete di connessioni. Diventiamo, in vita, abilmente e irreversibilmente molto simili ai caregivers che devono allevarci per il lungo periodo nel quale siamo dipendenti. E passiamo gran parte della nostra vita di adulti con altre persone: nella realtà, con le persone con cui viviamo e interagiamo, con le persone del nostro passato che vivono dentro di noi come ricordi e presenze interne, che abitano il nostro mondo soggettivo anche quando siamo soli; in generale, con le persone che ci hanno insegnato il linguaggio e i sistemi simbolici nei quali pensiamo e organizziamo le nostre esperienze. E siccome le nostre vite sono tanto legate ad altre persone, la qualità delle nostre relazioni con gli altri è centrale per la qualità emotiva delle nostre vite, per la loro vivacità, consistenza e tono.”
Stephen Mitchell
