A causa della “questione coronavirus”, io e il mio psicoterapeuta ci siamo accordati per la seduta via Skype, al solito orario. Nonostante per me andare fisicamente in studio e ol setting stesso siano sempre stati una piacevole routine.
Nel prendere questi accordi sono iniziate le mie fantasie, brevi, ma intense: “forse questa cosa può essere rivoluzionaria, magari così come il lettino che poi non abbiamo mai usato, anche il setting classico può essere superato”, e cose di questo genere. Mi sbagliavo. Avevo in mente la rottura di scatole dell’autocertificazione, degli eventuali controlli: “cosa direbbe un agente un po’ troppo zelante di fronte a una psicoterapia?”. Tutte queste cose, e chissà quali altre, hanno contribuito a formare questo pensiero “la seduta su Skype è fattibile”. Tutto questo accadeva prima e durante la telefonata per accordarci; finita la telefonata questo pensiero era già mutato: “ma a me PIACE andare in seduta”, e non solo l’atto della seduta in sé, di quei 45/50 minuti, a me piace andare fisicamente a studio, mi piace addirittura fare a cazzotti coi mezzi. Mi piacciono quei 10 minuti di anticipo che uso per prendere un caffè e i pensieri che mi corrono in mente mentre lo bevo. Mi piace quel turbinio di pensieri che contraddistinguono il giorno della seduta (e talvolta anche la sera prima), dal risveglio a che sento la porta dello studio aprirsi, e il dottore che fa capolino nella sala d’attesa: “buonasera”, “buonasera”. Mi piace alzarmi e percorrere il corridoio, entrare nella stanza e sedermi; la seduta inizia con il dottore che chiude la porta e si siede anche lui: “allora…come va?”.
Questa sequenza mi è presto divenuta familiare, e ogni piccola sua variazione aggiungeva un certo senso di realtà, come i lavori negli appartamenti limitrofi, o il notare un dettaglio nello studio mai notato prima.
Oltre alla mia routine, alla costruzione dei pensieri che avveniva mentre andavo a studio, al setting stesso, accogliente e familiare, mi mancava qualcos’altro. La mancanza forse più grande è “il mondo dell’altro”. Quell’infinità di elementi che permettono la conoscenza di un qualcosa fuori da noi stessi, che ci permettono di non stare da soli. Non ero certo solo durante la seduta via Skype, il dottore era lì, potevo vederlo e sentirlo, ma la familiarità della mia stanza non era la familiarità dello studio.